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La nostra società è un conflitto continuo, tra ciò che dona e ciò che toglie, tra ciò che chiede e ciò che pretende.
La società, se ne parla tanto, ma cosa sia realmente difficilmente si comprende, la si vive come un’entità distinta che regola le nostre vite.
Errore; la società siamo noi.
Creiamo quella che è definibile “società” attraverso le nostre interazioni con gli altri, le regole che imponiamo a noi stessi e agli altri, il problema sorge quando essa sfugge al nostro controllo.
Lo ha fatto, è diventata incontrollabile, autonoma, non sappiamo più chi la guidi, chi possa ora dominarla.
Parliamo e discutiamo di ideali persi, nuovi, ritrovati, senza averne coscienza.
Ci svegliamo al mattino, infiliamo un paio di pantaloni, una maglia, un paio di scarpe, indossiamo la nostra quotidianità, accendiamo l’auto, la radio, al primo stop imprechiamo contro un altro automobilista, è come noi, ma diverso, lui non l’ha fatto, lo stop, così abbiamo dovuto premere a fondo il pedale del freno per evitare lo scontro.
Suoniamo il clacson, agitiamo la mano e dentro di noi pensiamo: “che gente che c’è in giro, una volta non era mica così, ma dove stiamo andando?”.
Poi, se siamo dell’umore giusto, aggiungiamo anche un: “si stava meglio quando si stava peggio”.
Bene.
Abbiamo messo in scena lo stereotipo dell’essere umano contemporaneo.
Ma davvero “prima”, in un prima generico, indefinito, le cose erano così diverse?
No, non lo erano, erano uguali.
Solo che “prima” avremmo potuto agire, cambiare noi stessi per cambiare questo “scomodo andazzo”, educare per educarci.
Ma non l’abbiamo fatto.
Era difficile, complicato, frustrante.
“Perché devo sforzarmi solo io?”
“Perché intorno a me tutti sono menefreghisti?”
Eh già, perché?
Meglio dire che “prima” tutto era diverso, migliore.
Meglio non pensare che, sotto sotto, la società siamo noi, che se non riusciamo ad imporre un “andazzo” diverso a noi stessi, alla persona che siamo, come possiamo pretendere che lo facciano prima gli altri?
Sembra che tutti si stia qui aspettando.
Come si aspetta un treno alla fermata.
Aspettiamo che altri cambino, che altri guidino la società, guidino noi, come un macchinista il treno, così, quando sarà tutto già “aggiustato”, potremo salire anche noi su questa ritrovata umanità e festeggiare.
Fosse così semplice sarebbe già accaduto, non credete?
Non c’è un macchinista ferroviario per questa società, ci sono solo tante piccole gocce legate assieme, tante piccole vite che scorrono, scivolano nel mondo, alcune sono più forti, determinate, lasciano solchi, indelebili.
Così immoliamo queste figure all’altare della storia, le ammiriamo, ma non le emuliamo.
Perché accade?
Rispondetemi, perché non si emula il bene?
Sì, lo so, di “buone persone” è pieno il mondo, sì, ma non sono mai abbastanza.
Ci osserviamo sfiorare la deriva aspettando un treno guidato da altri.
Non possiamo guidarlo noi?
Tutti insieme.
No, non si sa da dove cominciare.
Forse, un dubbio, forse non è rilevante il “dove”, forse basta solo cominciare.
Ma è difficile, complicato.
C’è conflitto, dentro e fuori.
C’è conflitto tra questi stessi pensieri.
Vabbé, diciamolo.
Si stava meglio “prima”, sì, prima tutto era più facile, più semplice.
Prima eravamo migliori, no, prima non ci avevamo riflettuto sopra e ci credevamo migliori.
Adesso lo so, non sono migliore, mi lamento, provo a fare qualcosa di diverso, ma al primo ostacolo smetto.
Ritorno alla fermata, vado ad aspettare quel treno.
Che confusione.
Sì, stavo meglio prima, sì, prima di esporre questi miei conflittuali pensieri.
Rispetto a prima almeno ora lo so, ne ho la certezza, c’è conflitto.
C’è conflitto, dentro e fuori.
Tra ciò che si desidera, ciò che si sogna e ciò che si fa, concretamente.
Il giostraio ti propone un brano da ascoltare dopo la lettura.
Renato Zero – Ti andrebbe di cambiare il mondo?: