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Un super Tele.
Sì: un pallone.
Era rosso con pentagoni neri.
Era leggero, costava poco, era: per tutti.
Tutti i bambini ne avevano uno.
È il ricordo dell’infanzia di molti, ricchi e poveri.
Ecco, era proprio quel pallone che una mano giovane, piccola, stava facendo rimbalzare sul cemento del cortile.
Sì, perché molti lo usavano per giocare a calcio, lui no, lui aveva un canestro e la voglia di essere un grande giocatore americano, di quelli che si vedevano alla TV.
Fissava il canestro, rimbalzo dopo rimbalzo, lo fissava, sembrava non riflettere, pensare, invece era l’opposto; ogni rimbalzo lasciava spazio a fiumi di parole che gli scorrevano dentro, pensava alla maestra di scuola, alla mamma indaffarata con i fratelli più piccoli, con le faccende di casa e con la nonna, che dalla sua poltrona giudicava ogni passo della nuora.
La mamma ad ogni giudizio sorrideva, perché era così che funzionava: le nuore sopportavano i giudizi delle suocere e le suocere, segretamente, ringraziavano il cielo per aver permesso al figlio di sposare una donna tanto forte, tanto simile a loro.
Ecco; le giudicavano per prepararle al mondo, perché una donna era la struttura della famiglia, era lei che avrebbe curato le ferite di tutti, quindi era meglio porre solide fondamenta, se crolla la donna: crolla tutto.
Le mamma lo sapeva, l’aveva visto fare anche a sua nonna, mancata troppo presto, ma che, sul letto di morte, aveva voluto che a stringere la sua mano all’ultimo respiro fosse proprio lei, quella stessa nuora che apparentemente aveva tanto disprezzato, ma che in verità aveva amato.
L’aveva fissata negli occhi fino alla fine, in silenzio, ma lei l’aveva vista, la sua mamma cambiare, sorridere a quella donna che credeva non l’avesse mai stimata, mai voluta accanto al figlio, invece era tutto l’opposto.
Essere duri, essere severi, allontana gli altri, ma forse è questo il segreto: permettere a coloro che stimiamo, coloro che vorremmo vedere “vincenti”, di allontanarsi e farsi forti, di non avere più bisogno di altro appoggio, di bastarsi da sé, per affrontare tutto e non arrendersi alle salite.
Lui però tutte queste cose non le sapeva, lui pensava tanto, ma capiva ancora poco, stava crescendo, stava imparando com’era la vita, rimbalzo dopo rimbalzo, analizzava il mondo.
Le mani avevano stretto il pallone e dopo un lungo respiro: lanciato.
Lui, il pallone, aveva rispettato la direzione ed era caduto nel vuoto proprio al centro del canestro.
Soddisfazione.
Sorriso.
Sorrisi e soddisfazione che riempiono il cuore, che fanno sentire appagati, che solo un bambino può capire e raccontare.
La soddisfazione delle piccole cose, una soddisfazione che crescendo perde sapore.
Ma lui in quel cortile era solo un bambino con il Super Tele, prese il pallone, sorridendo, riprese a farlo rimbalzare.
La mamma dal balcone stava battendo le mani e gridando “bravo”, perché lei era indaffarata, aveva tanto a cui pensare, ma non si dimenticava del suo bambino.
Lui aveva alzato lo sguardo e capito che quel momento non se ne sarebbe andato, sarebbe stato uno dei ricordi più semplici e veri della sua infanzia.
Perché non accade più?
Chi ha nascosto i Super Tele?
Chi ha affisso tutti quei cartelli con scritto a lettere grandi e in grassetto: “Vietato giocare a pallone in cortile”?
Chi ha rubato i giochi semplici e veri ai bambini?
Chi non ha capito che per saper crescere serve, per prima cosa, saper giocare.
Il giostraio ti propone un brano da ascoltare dopo la lettura.
Giuseppe Povia – I bambini fanno ooh!