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Plastica nera rigida, la fila delle sedie raggruppate cinque a cinque, in tutto conta venti posti disposti lungo le pareti.
Sguardi abbattuti, rassegnati, rimbalzano sui muri.
Azzurro slavato con una riga celeste scuro all’altezza della schiena, l’ambiente non regala l’accoglienza sperata.
Scomodamente appostata davanti alla porta che tutti, in quella stanza, vorrebbero varcare velocemente, attende, alterna il movimento degli occhi, in basso, alla porta, in alto.
Più la si osserva e più la porta sembra serrarsi, irrimediabilmente chiusa, senza alcuna speranza di veder uscire l’infermiera con il foglio bianco in mano ed il suo cognome appiccicato alle labbra.
Le persone bisbigliano tra loro, ogni nuovo malcapitato arriva con un sorriso, un “buon giorno” e già sul finire del “giorno” la voce si incrina, il tono si spegne, il grigio lo accoglie e seduto si mette.
La stanza minuziosamente controllata, prima si fissa il pavimento, le mattonelle rotte, crepate, alcune inclinate, come se il peso dell’attesa gravasse con forza anche su di loro, premendo, premendo, fino a deformare.
In un secondo momento lo sguardo lentamente sale, fissa il muro, l’azzurro slavato rigato, battuto, da scarpe, borse, cerniere di giacche irrequiete, la striscia turchese non è riuscita a mascherare le righe.
L’occhio si rivolge ora al soffitto, freddo, colpa delle bianche luci incassate nel cartongesso.
Lo sguardo attirato da tre macchie color caramello, tonde, cerchi precisi, pensa ad un mondo al rovescio dove qualcuno abbia appoggiato tre tazze fumanti di caffè scuro sul pavimento, il caffè dai bordi è straripato lasciando il cerchio in una macchia, il pavimento che nel suo mondo ora è il soffitto.
Non riesce a trovare altre spiegazioni per quelle macchie, seduta con la schiena un poco piegata, scomoda, come tutti nella stanza, allunga le gambe, batte i tacchi delle scarpe da ginnastica rosa a righe azzurre, li batte ancora e pensa alla Dorothy del film, “nessun posto è bello come casa”, quanto vorrebbe avere quelle scarpette rosse ai piedi…
Le gambe ancora stese, si osserva le caviglie, la destra ha il pantalone risvoltato che mostra un calzino a righe in tinta con la maglietta, quella sinistra invece accoglie il pantalone senza risvolto, inutile, uscire di casa puntuale è sempre un miraggio, come sempre era in ritardo e come sempre è uscita di casa in fretta e furia, si china per risvoltare il pantalone e sorride, se avesse saputo di questa coda, di questa attesa, l’avrebbe fatto anche a casa , avrebbe potuto risvoltare i pantaloni di tutta la sala d’attesa e pure degli avventori dell’ospedale, la fantasia si sta facendo strada tra la noia.
Immagina che fare i risvoltini possa essere un vero lavoro, il suo mestiere, stipendiata per regalare, a chiunque paghi i sui servigi, risvoltini impeccabili, ah, quanti pensieri incomprensibili e futili si originano dalla noia dell’attesa che si protrae nel silenzio dei bisbigli da più di un ora e mezza.
Si distrae nuovamente, inizia ad unire l’indice destro con il pollice sinistro, l’indice sinistro con il pollice destro, in una scalata continua che non avrà mai fine, non ha il coraggio di guardare l’orologio, il tempo in quella stanza sembra non passare mai, condannati all’infinita attesa per una visita medica.
La maniglia inizia a girare, esce l’infermiera con il cognome di un altro appiccicato alle labbra, l’attesa continua, avrà mai fine?
Il giostraio prende la parola:
questo giro di giostra è particolare, senza una profonda morale lampante, un semplice tentativo di farvi vivere la noia dell’attesa e di farvi entrare nei pensieri di chi è seduto in una qualsiasi sala d’aspetto, se alla fine di questo giro siete rimasti delusi perché l’infermiera non aveva sulle labbra appiccicato il cognome della protagonista, allora, ho raggiunto il mio obiettivo, vi auguro un buon proseguimento, al prossimo giro di giostra!
Il giostraio ti propone un brano da ascoltare dopo la lettura.
Franco Califano – Tutto il resto è noia: